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Franco Bernabè
"Siamo in trappola?" Franco Bernabè e la crisi del capitalismo democratico
Questa intervista è stata raccolta a valle dell’incontro riservato a capi azienda dello scorso 13 novembre 2024. L’intervento di Franco Bernabè ha preso avvio dal ripercorrere le tappe della propria carriera come manager di importanti aziende, fino a esprimere alcune considerazioni di politica estera, che si trovano approfondite nel suo libro «In trappola», che riporta un’ampia e articolata intervista del giornalista Paolo Pagliaro.
Dottor Bernabè, partiamo dal periodo storico che lei ha vissuto come protagonista. Come descriverebbe gli anni trascorsi alla guida dell’ENI?
Sono stati anni intensi e cruciali. Quando sono stato nominato amministratore delegato dell’ENI, la situazione era critica: l’azienda aveva debiti per oltre 30.000 miliardi di lire e mancavano persino le risorse per pagare gli stipendi. L’indicazione del governo era di smantellare tutto, ma io avevo un disegno diverso. Credevo fermamente che l’ENI potesse essere risanata, razionalizzata e resa indipendente dalle interferenze politiche attraverso la quotazione in Borsa. Questo percorso richiedeva un’enorme opera di razionalizzazione, vendita delle attività non strategiche e valorizzazione del core business. Non è stato facile, ma alla fine ci siamo riusciti e l’Eni nel 1995 è stata quotata al NYSE.
E per quanto riguarda il passaggio successivo a Telecom Italia?
La situazione era altrettanto difficile, se non peggiore. Telecom era stata privatizzata male, vittima di un’OPA ostile e caricata di debiti. Quando sono tornato a guidarla nel 2007, mi sono trovato davanti a una struttura patrimoniale insostenibile: 35 miliardi di goodwill, 35 miliardi di debiti e a fronte del patrimonio di solo 15 miliardi di attivo fisso. In sette anni ho ridotto in misura sostanziale sia i debiti che i costi. È stata una battaglia dura, ma necessaria.
Guardando al panorama internazionale, quali cambiamenti ritiene siano più significativi rispetto al passato?
Credo che il panorama globale sia entrato in una fase estremamente delicata. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, molti pensavano che si sarebbe diffusa universalmente una democrazia liberale accompagnata da un regime di libero mercato. Oggi, però, ci troviamo di fronte a una realtà ben diversa, prevalgono le spinte autocratiche: da un lato Xi Jinping, dall’altro Trump. L’autocrazia è cresciuta accanto al capitalismo, mentre l’Occidente sta perdendo coesione e leadership.
Quali sono le sue riflessioni sull’attuale ruolo dell’Europa?
L’Europa deve affrontare una sfida esistenziale. Dopo il fallimento del referendum costituzionale europeo, si è scelto di rabberciare il progetto con il Trattato di Lisbona, mantenendo un sistema di governance complicato e inefficiente. Questo ha impedito una vera integrazione federale. Inoltre, la crescita del sovranismo in molti Stati membri dimostra che non esiste un consenso verso un’ulteriore unione. Credo che l’unica via possibile sia quella di creare un nucleo ristretto di Paesi pronti a lavorare insieme in modo coeso e determinato.
Tornando agli Stati Uniti, come valuta l’impatto di Trump sulla politica interna ed estera?
Trump rappresenta una svolta storica per gli Stati Uniti e il mondo intero. La sua prima presidenza era mitigata da un Partito Repubblicano ancora forte, che gli aveva imposto figure di equilibrio. Oggi la situazione è diversa: il partito è ormai debole, e Trump ha nominato collaboratori totalmente appiattiti sulle sue posizioni. Questo elimina ogni forma di checks and balances, che sono stati il pilastro della democrazia americana per oltre due secoli.
Ha menzionato il ruolo di Elon Musk e delle big tech. Che posizione occupano in questo scenario?
Musk è un esempio perfetto di come il settore pubblico sia fondamentale per lo sviluppo tecnologico del sistema industriale americano. Nonostante Musk si presenti come paladino del libero mercato, le sue aziende, da SpaceX a Tesla, ricevono miliardi in finanziamenti e commesse pubbliche. Inoltre, con società come Palantir , Thiel, Musk, e altri imprenditori, stanno concentrando il potere tecnologico e militare, puntando a trasformare profondamente l’industria della difesa. Questo spostamento verso l’intelligence e le tecnologie satellitari potrebbe destabilizzare ulteriormente gli equilibri globali.
La destabilizzazione del sistema capitalistico ha però una gamba anche a est.
Tutto è cominciato con l’apertura operata da Clinton alla Cina. Un’apertura non certo dettata da pura generosità, ma dalla convinzione che esportando il sistema di mercato occidentale, avrebbe esportato assieme alla democrazia anche l’influenza degli Stati Uniti. Il tutto sotto la pressione di alcune lobby economiche che volevano aprire il mercato a est. La Cina è entrata nel WTO a pieno titolo senza dare mai le necessarie garanzie di rispetto dei diritti umani e sociali. Per molte imprese dell’epoca la Cina era la destinazione ideale per l’outsourcing, per esportare i problemi di inquinamento e raddoppiare i profitti. È stato un errore. La Cina non è stata ferma e oggi è competitiva non solo a livello di costi, ma anche di avanzamento tecnologico. L’Occidente si è marginalizzato con le sue stesse mani. E non è in grado, per il momento, di recuperare.
Quali sono le conseguenze di tutto questo per l’Europa?
L’Europa è in grave ritardo nel rispondere a queste sfide. Abbiamo assistito alla dipendenza della Germania dal gas russo, ai contratti vantaggiosi che i tedeschi stipulavano con Mosca, e alla mancanza di una politica estera comune. L’idea che 27 Stati possano agire come un blocco coeso è, purtroppo, irrealistica e infatti l’ascesa dei sovranismi in tutta Europa lo dimostra. Serve una reazione rapida, un pensiero out of the box per garantire la nostra sopravvivenza politica ed economica.
Cosa può fare l’Occidente per uscire da questa “trappola”?
La consapevolezza è il primo passo. L’Occidente ha ancora le risorse per reagire: abbiamo università, tecnologie, cultura e valori che hanno plasmato il mondo moderno. Tuttavia, è necessario un cambiamento radicale, non un miglioramento incrementale. Dobbiamo ripensare il nostro ruolo nel mondo, difendere la manifattura, rafforzare le nostre istituzioni e trovare una leadership capace di guidare un progetto nuovo. Senza questa presa di coscienza, rischiamo di diventare irrilevanti.